Famiglia Oggi n. 6/7 GIUGNO-LUGLIO 2004 – I RAGAINI: MISSIONARI IN AFRICA E NON SOLO
Sei anni in Ciad e poi una nuova destinazione presso una parrocchia della periferia milanese. È il cammino di una famiglia “normale” che testimonia come la “sinergia” tra diverse vocazioni possa diventare cemento per la Chiesa locale.
Raccontando la nostra storia di famiglia missionaria, sentiamo sempre la difficoltà di trasmettere un’esperienza che a molti può apparire lontana. Tuttavia ci pare che sia un cammino che ha numerosi elementi in comune con le storie di altre coppie e famiglie. È in fondo la testimonianza di come, rispettando il ruolo e la vocazione della famiglia, si possa creare una “sinergia” con il ruolo e la vocazione del sacerdote, a servizio di una Chiesa locale, in particolare di una parrocchia. Le modalità concrete in cui questa “comunione per la missione” si realizza, potranno poi essere le più diverse. Vogliamo raccontare due fasi della nostra storia familiare: l’esperienza in Ciad (Africa centrale) in una fraternità missionaria composta da due famiglie e due preti, e in Italia, a Milano, nella parrocchia Pentecoste. Ci chiamiamo Marta e Marco Ragaini, sposati dal 1992, con tre figli. Abbiamo vissuto a N’Djamena, la capitale del Ciad, per sei anni, in fraternità con un’altra famiglia (entrambi medici missionari, con tre figli) e due preti. Siamo stati inviati dalla diocesi di Milano, in collaborazione con il Centro fraternità missionarie di Piombino. L’originalità di questa esperienza consiste nella dimensione comunitaria, tra vocazioni diverse, uomini e donne, celibi e sposati, laici e preti.
Una vita fraterna autentica, fondata sulla parola di Dio e orientata alla missione e al servizio alla Chiesa locale. In completa corresponsabilità, pur nel rispetto dei ruoli, abbiamo assunto la conduzione di due parrocchie di circa ventimila abitanti alla periferia della città, dedicando tempo ed energie alla preghiera, alla riflessione comune, alla progettazione pastorale.
Nello stesso spirito, anche il lavoro dei due medici presenti in fraternità era oggetto di riflessione e confronto, e un prezioso arricchimento per tutti. Questa diversità, costituita dalle sensibilità, relazioni, esperienze di ciascuno, si è trasformata in un’enorme ricchezza, certo non senza fatica. È quella che chiamiamo una «comunione a caro prezzo», valida e autentica proprio perché costruita e voluta con impegno e fiducia nello Spirito, sorgente di unità.
Siamo stati molto aiutati e arricchiti dalla sapienza e dall’esperienza della Chiesa e dei cristiani di N’Djamena. Come è noto, in Africa la famiglia rappresenta una dimensione fondamentale per la persona, al punto che il Sinodo africano ha adottato l’espressione “Chiesa-famiglia di Dio” per dare un’icona, un modello al volto della sua Chiesa.
L’aspetto forse più evidente di questo volto è quello della Comunità ecclesiale di base, in cui si riuniscono i cristiani, raggruppandosi per quartieri o per regioni di provenienza. Anche nelle nostre parrocchie esistevano una dozzina di queste comunità. Esse sono gestite e animate completamente dai laici, che svolgono diversi servizi, sia a carattere “religioso” (catechesi, funerali, assistenza ai malati, preghiera, riflessione biblica), sia nel campo della promozione umana (solidarietà con i poveri, alfabetizzazione, sanità di base, piccole mutue, impegno per la giustizia). La parrocchia diventa in questo modo la Comunità delle comunità, e la messa domenicale è veramente il centro della vita ecclesiale.
Questo modello di Chiesa, per noi nuovo e non riproducibile automaticamente in Italia, ci ha aiutato a capire meglio due elementi importanti del rapporto tra famiglia e parrocchia: la comunione è un aspetto centrale della vita della comunità cristiana, ma deve trovare dei luoghi in cui potersi realizzare. La piccola comunità a “dimensione umana” consente di creare amicizie, relazioni di aiuto, scambio vero di vita durante gli incontri di preghiera. In questo la famiglia può essere maestra per la parrocchia, poiché già vive al suo interno – non senza difficoltà e divisioni – la ricerca di una comunione vera e profonda, non funzionale a dei compiti da svolgere, ma gratuita.
Il legame fede-vita è essenziale per costruire un’esperienza di fede che non sia solo una patina superficiale, ma convinzione capace di dare anima a tutte le dimensioni della vita. Anche in questo le famiglie possono essere un richiamo forte alla concretezza della vita, a un annuncio del Vangelo incarnato nei problemi e nelle attese degli uomini di oggi, a una visione della quotidianità che non sia solo banale routine – quasi in opposizione all’intensità dei momenti “religiosi” – ma luogo teologico della presenza di Cristo.
Una nuova partenza
Al momento di lasciare il Ciad, durante la messa di saluto, un anziano della comunità ci ha rivolto queste parole: «Sappiamo che siete venuti qui inviati dalla vostra Chiesa di Milano. Ora che rientrate, vorremmo che non fosse solo un ritorno a casa, ma una nuova partenza. Ora siamo noi, cristiani di N’Djamena, che vi inviamo missionari nella Chiesa italiana».
Questo invio, oltre a crearci una certa trepidazione, ci ha motivati a cercare di continuare a vivere, anche a Milano, i due aspetti di comunità e di servizio alla parrocchia, che avevamo vissuto in Ciad. Con molta disponibilità, la diocesi ci ha proposto di avviare un’esperienza di fraternità con il parroco della parrocchia Pentecoste, nel quartiere Quarto Oggiaro.
Dal settembre 2001, abitiamo nella “canonica” e condividiamo con il parroco, don Alberto Bruzzolo, alcuni semplici momenti quotidiani di preghiera e della cena insieme. Abbiamo poi altri spazi settimanali e mensili per approfondire la parola di Dio e per progettare, insieme anche alla suora che segue la pastorale giovanile. A differenza del Ciad, l’impegno pastorale non è per noi un’attività a tempo pieno: entrambi lavoriamo all’esterno e dedichiamo il tempo libero all’impegno in parrocchia.
La logica di fondo è che questa esperienza deve “far bene” alla vocazione della famiglia e a quella del parroco. Massima attenzione, quindi, a cercare tempi e ritmi adatti, senza voler “strafare”, ma assumendoci gli impegni possibili a una famiglia con figli piccoli.
Desideriamo piuttosto mettere l’accento sulla qualità della vita fraterna, che già di per sé è un’importante testimonianza e fonte, a sua volta, di maggior comunione in tutta la comunità. Inoltre, la presenza di una famiglia in parrocchia non risponde alla logica di “avere più forze a disposizione”, ma piuttosto a quella di stimolare una maggior ministerialità e corresponsabilità. Preferiamo, cioè, una comunità in cui “tutti fanno poco”, secondo le proprie doti e disponibilità, a una in cui “pochi fanno tutto”.
Pur nella semplicità dell’esperienza, ci pare che la presenza di una famiglia in parrocchia possa contribuire a dare un volto più accogliente di Chiesa, anche, per esempio, nei confronti di chi si avvicina per la prima volta, magari per chiedere un sacramento o un servizio. Questo però, ancora una volta, non si realizza attraverso “attività”, ma in uno stile di vita espresso in una casa accessibile, “con la porta aperta”, nella disponibilità all’incontro, magari anche nella chiassosa simpatia dei bambini.
Conoscere le due strade
Teniamo a sottolineare come, forse per quanto sperimentato in Africa, questo modo di vita faccia del bene innanzitutto a noi come famiglia, ai nostri figli, che crescono così in un contesto ricco di relazioni.
È poi particolarmente ricca la collaborazione tra sacerdote e famiglia. Essa è espressione di una Chiesa-comunione non solo annunciata a parole, ma vissuta in prima persona. Il ministero del sacerdote ci pare “rafforzato” dalla vicinanza di una famiglia. Gli permette di conoscerne da vicino il ritmo di vita, i problemi, le gioie e le tensioni; di essere più concreto nella lettura della Parola. Al tempo stesso, però, anche per noi e per i nostri è molto feconda la presenza di don Alberto, con la sua ricchezza umana e spirituale, con la libertà e la gratuità di vita che gli vengono dal celibato e dal sacramento dell’ordine. E pensiamo che sia un bene per i nostri figli crescere avendo davanti agli occhi le due possibili strade, del celibato consacrato e del matrimonio, vedendone di entrambe la bellezza.
È un po’ come nel caso dei colori complementari, che si esaltano nella vicinanza reciproca. Per fare solo un esempio, il parroco, per il suo ministero, ha la possibilità di girare molto il quartiere, di incontrare molte persone diverse, è “proiettato all’esterno”. La famiglia ha invece una forte capacità di accoglienza, per il fatto di avere una casa solitamente più curata di quella di un prete, per la qualità dei rapporti al suo interno, per la cucina, per la presenza dei figli. Queste due caratteristiche, la mobilità del prete e l’accoglienza della famiglia, possono integrarsi e potenziarsi molto bene.
In conclusione, desideriamo affrontare un nodo spesso presente a questo proposito: quello di pensare che la vita comunitaria possa sottrarre energie all’azione apostolica del prete. A nostro avviso, se si tratta di una comunità evangelica e non di un rifugio dalle difficoltà del ministero, è vero piuttosto il contrario: la comunione vissuta “in piccolo”, con un cerchio ristretto di persone, abilita e allena alla comunione con tutti.
La comunità evangelica, per sua natura, si prolunga nella missione e nell’orizzonte della comunione universale. In questo, le diversità di vita di preti e sposati diventano una ricchezza e uno stimolo a maggior apertura. Se si può azzardare un paragone forse improprio, è come se dicessimo che l’amore tra la mamma e il papà certo non diminuisce, ma al contrario accresce, l’amore dei genitori verso i figli. La comunione è di quei beni che si moltiplicano dividendoli. Marta e Marco Ragaini.