Da ‘Popoli’ 15 ottobre 2013 – Chiara e Giovanni Balestreri sono tornati in Italia nel gennaio di quest’anno, dopo due esperienze di missione in Sri Lanka e in Perù.
Per quanto tempo e dove siete stati in missione e quando siete rientrati in Italia?
Come fidei donum inviati dalla diocesi di Milano siamo stati 5 anni in Perù prestando il nostro servizio nella diocesi di Huacho. In precedenza eravamo stati in Sri Lanka per un anno con l’associazione Papa Giovanni XXIII. Da fidanzati invece 3 mesi in Bolivia. Praticamente sono quasi 9 anni che stiamo vivendo una situazione da “pellegrini”. Siamo rientrati in Italia nel gennaio 2013 con la famiglia che nel frattempo ha visto la nascita di tre bambine.
Quali erano le principali attività che svolgevate?
La Diocesi di Milano ha come linea generale quella di inviare preti e laici che si inseriscano nel contesto parrocchiale. Quindi il nostro approccio è stato quello di diventare dei parrocchiani che realizzavano, promuovevano e condividevano progetti con la comunità. Ci siamo dedicati principalmente nel dare impulso all’ oratorio inteso non solo come attività catechetiche e ricreative, ma anche nel creare una certa mentalità di vita parrocchiale. Abbiamo poi iniziato un gruppo di famiglie che, dopo un periodo di terapia famigliare, i suoi partecipanti a loro volta si sono trasformati in promotori di iniziative missionarie di varo genere. Molto è stato il lavoro “informale” attraverso gli incontri quotidiani con la gente o la semplice testimonianza diretta.
Con quali desideri e motivazioni è maturata la scelta di partire?
Per noi il partire è stata una scelta quasi istintiva. Ci siamo subito accorti che per noi era importante poter dedicare parte della nostra vita e della nostra famiglia alla dimensione missionaria. Il partire è stato frutto poi di conoscenze, di incontri e di accettare con fiducia l’invito di preti amici. La motivazione è molto semplice, sentiamo che Gesù ci chiede di donare la cosa più importante che abbiamo e che per noi è la famiglia e di andare per le strade di tutto il mondo senza distinzione.
A quale realtà ecclesiale, associazione, movimento vi siete appoggiati, prima e durante l’esperienza?
Questi cinque anni in Perù siamo stati inviati e seguiti dalla Diocesi di Milano. Prima della partenza abbiamo frequentato un corso di 5 settimane presso il Cum di Verona. Poi durante la permanenza la diocesi ha organizzato incontri di formazione, ritiri spirituali e il responsabile dell’Ufficio missionario ci ha visitati personalmente. In questi anni abbiamo avuto anche l’occasione di essere visitati dal cardinale Tettamanzi. Poi essendo fidei donum l’appoggio deve essere anche cercato nella stessa diocesi sorella. Abbiamo quindi partecipato ad incontri di vario genere con gruppi locali parrocchiali o ad incontri di formazione socio-culturale.
Come descrivereste lo specifico dell’essere “famiglia in missione”? Quali cioè le principali differenze da un lato rispetto ai missionari consacrati, dall’altro rispetto ai cooperanti laici?
La famiglia missionaria è una presenza che suscita interesse, curiosità e simpatia. Rimane un qualcosa di non completamente capibile e quindi necessita di un tempo di conoscenza reciproco. Il prete, come da tradizione, arriva in un luogo già con un ruolo che forse lo tutela. La famiglia il suo “ruolo” lo deve capire, lo deve assumere relazionandosi con la comunità. Incide ovviamente lo stile con cui ti proponi. Noi personalmente abbiamo deciso di vivere in una casa del quartiere, non avere nessun aiuto nella gestione della casa e dei bambini. Questo ci ha molto avvicinato, fatto conoscere prima come persone e poi come missionari. Anche ne l’assumere una famiglia o un laico devono esseri attenti al contesto e capire dove meglio collocarsi. Abbiamo visto che l’accoppiata prete-laico, che la diocesi di Milano sta proponendo è molto valida sia come sostegno personale sia dal punto di vista pastorale. Per quanto riguarda la differenza con un cooperante pensiamo che principalmente il missionario deve essere un testimone di Dio e un fratello per la gente che incontra. Al cooperante vien richiesto più un lavoro e una presenza tecnica.
Una volta rientrati, quale legame avete mantenuto con la missione in cui eravate?
I legami sono principalmente di amicizia e di affetto. Tramite le tecnologie informatiche siamo rimasti in contatto e facciamo sentire che il nostro interesse non è finito con la partenza. Avendo realizzato tutti i vari progetti pastorali con la comunità non sentiamo la preoccupazione che possano finire, ma come accade anche nelle nostre parrocchie ne viviamo la loro trasformazione.
Come è stato il rientro dal punto di vista lavorativo, relazionale, della vita quotidiana? Vi siete sentiti supportati dalla realtà ecclesiale che vi aveva “inviato”?
Prima ancora del rientro con l’Ufficio missionario si era discusso di un nostro desiderio di rimetterci ancora a servizio della diocesi. Nel concreto si è realizzato un nostro inserimento in una parrocchia che rimaneva senza parroco residente. E’ un progetto pilota ancora tutto da definire, ma molto interessante. Quindi il nostro rientro è un po’ anomalo sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto riguarda la vita quotidiana. Cinque anni vissuti all’estero e in missione sicuramente ti cambiano alcuni schemi e abitudini, ma il rientro non è stato così drammatico come a volte accade.
Come riuscite a essere una “famiglia missionaria” anche in Italia?
Pensiamo che “famiglia missionaria” dovrebbe essere la prerogativa di tutte le famiglie cristiane se intendiamo come missionario colui che testimonia il vangelo nella vita quotidiana. Quindi più che sentirci vogliamo continuare a cercare di essere una famiglia missionaria. L’aver accettato poi la proposta di abitare in una casa parrocchiale ci aiuta a continuare a vivere con una certa precarietà evangelica che favorisce questa nostra ricerca.
Dopo alcuni anni di assenza, quale Chiesa avete ritrovato in Italia? Con quali problemi e quali ricchezze?
In questi anni non abbiamo perso il contatto con la Chiesa Italiana, abbiamo seguito le varie vicende, i vari scandali e le varie iniziative. Avendo vissuto un altro tipo di Chiesa, forse abbiamo qualche termine di paragone su la responsabilità dei laici e forse che in certi ambienti, anche parrocchiali si ha paura di parlare di Dio e di essere testimoni credibili. Abbiamo notato che forse si ragiona ancora troppo per gruppi e per interessi quando invece il vangelo comprende tutto. Ad esempio si parla di chiese etniche e nelle parrocchie pochi ancora sono i catechisti stranieri, persone con un percorso di Chiesa differente che potrebbero portare delle ricchezze. Abbiamo comunque visto e riscontrato che le parrocchie rimangono delle presenze vive in una società secolarizzata, la vivacità dei gruppi religiosi, dei gruppi missionari e di volontariato è qualcosa che all’estero non è così facile da trovare.
A volte viene voglia di ripartire?
Noi ci sentiamo sempre in partenza. Abbiamo deciso di affidarci agli incontri e di non rinchiuderci. Quindi lasciamo anche la possibilità di una partenza lontana. Spesso ci dicono che così non abbiamo radici. Noi pensiamo invece che anche la foglia attaccata al ramo più alto è viva grazie alle radici, semplicemente è più esposta alle intemperie e al vento che potrebbe staccarla. La partenza è qualcosa che bisogna alimentare, sia a livello di vocazione sia a livello pratico facendo scelte che non ti impediscano di essere pronto quando senti la chiamata. © FCSF – Popoli
–Chiara e Giovanni Balestreri raccontano la loro esperienza in Perù e in parrocchia a Vigano Certosino>>